Zanetti: «Inter una famiglia! Triplete? Con Mourinho salto di qualità»
Javier Zanetti, ospite dell’ultima puntata del podcast ‘Muschio Selvaggio’ su YouTube ha parlato dei suoi inizi e dei suoi anni all’Inter da calciatore
SOPRANNOMI – Questo il racconto di Zanetti: «All’Inter 19 anni e 19 allenatori? Non 19 ma quasi (ride, ndr). Qualcuno è durato di più. Nel 1999, in una stagione, abbiamo cambiato quattro allenatori. Caratteristica migliore per un difensore? Per quanto mi riguarda tanti km fatti, tanta corsa, tanta concentrazione. L’attaccante basta che arriva una palla fa un gol o un assist. Il nostro è più un lavoro di sudore: ma è giusto che sia così, una squadra è giusto che tutti i componenti facciano il loro. A noi toccava questa, che ci piaceva. Soprannomi? “El Tractor” me lo hanno dato al Talleres. Il telecronista diceva che lo ero, e appena sono arrivato in Italia me lo hanno dato. Pupi? Mio fratello lo chiamavano così. Io in Argentina ho avuto lo stesso allenatore, quando ha saputo che ero il fratello mi chiamava così. Da lì nasce anche il nome della mia fondazione».
BANDIERA – Zanetti parla del suo rapporto con l’Inter ed i tifosi: «Io sono arrivato in Italia giovane. Arrivo subito all’Inter, che per me era una grande opportunità. Da lì è nata una passione, un legame molto forte con i tifosi. Io sono argentino, arrivo come straniero, io mi sono sentito subito come una famiglia. Mi è piaciuto il senso di famiglia: il lato umano è la parte più importante, quello economico è secondario. Io cercavo un club con quei valori, nel quale io condivido in pieno. Via dall’Inter? Ci sono stati dei momenti in cui ho avuto offerte da club importanti, Manchester United, Real Madrid, Barcellona proprio nel momento in cui non andavamo bene. Era più semplice andare via però quando uno mette sulla bilancia il senso di famiglia, anche come la mia di famiglia come si sente rispetto al paese ed al club, non potevo abbandonare l’Inter nonostante quel momento. Volevo lasciare la mia impronta, essendo il capitano avevo una responsabilità. Ed ho deciso di rimanere».
INIZI – Zanetti parla dei suoi inizi in Argentina: «Il mio sogno da calciatore inizia nel mio quartiere in Argentina. Un quartiere piccolo in cui mio padre fece un piccolo campo in cui passai l’infanzia. Quest’immagine mi è sempre venuta in mente, anche nei momenti più gloriosi con l’Inter. La gente guarda le immagini in cui alzavo i trofei, a me piace il percorso che ha portato a quello. Iniziai da giovane nell’Indipendiente, di cui sono tifoso. Dopo due o tre anni l’allenatore mi disse che non facevo più parte del gruppo, perché ero troppo piccolo e non crescevo. Subito tristezza e pianto, era la squadra per cui tifavo. Ma sono momenti che ti presenta la viva in cui devi rispondere. Per un anno non potevo andare in un altra squadra e mi sono messo a lavorare con mio padre, che faceva il muratore. Lui mi disse cosa volevo fare da grande, gli dissi che volevo fare il calciatore. Mi disse di riprovare, da lì ebbi la spinta per la mia carriera. Se vedi una carriera di un calciatore ci sono più sconfitte che vittorie. Io dico sempre che la sconfitta è quella che ti fa diventare più forte: prima di vincere devi saper perdere. È la sconfitta che ti prepara a vincere. Come si impara? Non è facile, la sconfitta viene accettata perché magari di fronte hai una squadra più forte, o magari eri tu il più forte ma hai avuto una giornata no. Si parla sempre del risultato. Ho tre figli, due che giocano a calcio: c’è pressione per i risultati, i giocatori devono divertirsi. A quell’età devono imparare i veri valori dello sport».
ARRIVO – Zanetti parla del suo approdo in Italia, col commento di Maradona: «Io arrivo in Italia nel 1995. Presentazione alla Terrazza Martini, diluvio universale. All’epoca potevano giocare solo tre stranieri, l’Inter ne aveva presi quattro: me, Roberto Carlos, Rambert che era un mio connazionale ed il più conosciuto, e Ince. Allenatore Bianchi. Arrivo e vediamo, per me era una grandissima opportunità. Il destino vuole che io inizio a giocare a destra, Roberto Carlos a sinistra. Ed inizia la mia carriera. Poi l’intervista a Maradona, una pressione incredibile».
5 MAGGIO – Zanetti parla del 5 maggio 2002: «Una sconfitta durissima. Per tutto il campionato eravamo primi, proprio l’ultima partita perdiamo a Roma con la Lazio e perdiamo il campionato. Durissima, triste. Mi ricordo l’Olimpico pieno di tifosi dell’Inter, sembrava una festa preparata. Invece il calcio ci aveva dato un altro schiaffo, un’altra sconfitta. Però ti devi rialzare nonostante le critiche, la pressione altissima. Come ho affrontato il momento? Digerire quella confitta non è stato semplice. Per tutto il campionato sei primo e proprio all’ultima giornata perdi lo scudetto dopo un anno di lavoro. Però ho preso questa sconfitta come parte del mio mestiere sapendo che non dovevo mollare essendo il capitano. Dovevo dare questo esempio. Io parlai sempre con Moratti il nostro presidente che investiva tantissimo, che il nostro momento sarebbe arrivato prima o poi. Ed il tempo ci ha dato ragione».
TRIPLETE – Zanetti parla del Triplete: «Tutto quello arrivato dopo il 2002 è stato fantastico. Vincevamo in italia, ci mancava questo gradino di vincere in Europa. Arrivò Mourinho, io ero a Fiumicino che stavo andando in Argentina. Mi squilla il telefono, rispondo: “Buongiorno sono Mourinho, ho appena firmato con l’Inter. Tu sei il mio capitano, sei la prima persona che chiamo”. Con Josè abbiamo fatto il famoso salto di qualità. Ci ha convinto che potevamo arrivare a vincere la Champions League, nonostante le grandi difficoltà. A Kiev, nel girone, a fine primo tempo eravamo fuori. È stata una Champions fantastica. Mourinho? Lui ha una grandissima intelligenza, un uomo molto preparato. Si presentava alle conferenze sapendo cosa gli andavano a chiedere. Al Camp Nou, al ritorno della finale di Champions League, esce per primo si prende tutti i fischi e poi fa uscire la squadra. È uno stratega, tutto quello che fa è pensato. La chiave del 2010? Era una squadra fatta da uomini prima che calciatori. Tutti di grande personalità, senso di appartenenza e di voler scrivere una pagina di storia per l’Inter. In quel momento la squadra più forte era il Barcellona di Guardiola. Noi in semifinale abbiamo battuto la più forte con Messi a 10 anni in meno, Iniesta, Xavi. Una cosa incredibile»